Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Dello stesso Autore:
Süden. Il caso dell’oste scomparso
Süden e la vita segreta
M come Mia. Süden e le ombre del passato
Il giorno senza nome. Un caso per Jakob Franck

Titolo originale: Ermordung des Glücks. Ein Fall für Jakob Franck
© Suhrkamp Verlag Berlin 2017

© 2018 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: novembre 2018

Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-445-2

Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
www.emonsedizioni.it

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FRIEDRICH ANI

L’OMICIDIO DELLA FELICITÀ

Un altro caso per Jakob Franck

Traduzione di Fabio Lucaferri

 

When there is no more

You cut to the core

Quicker than anyone I knew

When I’m all alone

In the great unknown

I’ll remember you

Bob Dylan, I’ll remember you

I

Il mare a portata di mano

1

Il vetro della porta le restituì il riflesso di una donna che sta cadendo a pezzi.

Più guardava, più si meravigliava di trovarsi ancora lì, dopo tanti giorni – trentaquattro, per la precisione – di assenza totale dal suo mondo.

Stava così, vicina al vetro, come se abbassare la maniglia e aprire la porta fossero la cosa più facile al mondo. La gente la fissava importuna; vigliacchi che non muovevano un dito, rimanevano fermi e disturbavano la neve, che invece apparteneva a lei sola.

Fin da quando era bambina, la prima neve cadeva soltanto per lei; ne catturava i fiocchi con il grembiule, li portava a casa e diceva guarda, mamma, ti ho portato una pioggia di stelle.

Quell’immagine le tornava in mente quasi tutti gli anni, ma non lo raccontava a nessuno. Neanche a Lennard.

Il pensiero di Lennard le bruciò dentro come un incendio e, aspirando l’aria fredda, ebbe nostalgia del sapore della neve. “C’è qualcosa che non va!, esclamò, ma non udì la propria voce.

Inclinò la testa, in ascolto. I fiocchi bussavano silenziosi alla porta. Una dopo l’altra le facce scomparivano. Infine, niente più passanti in strada, niente più macchine; nell’oscurità pulsante la neve risaliva vorticando le facciate degli edifici. Il silenzio le parve un’immeritata benedizione.

Per qualche secondo, dimenticando il dolore, tornò alla bambina con il grembiule pieno della pioggia di stelle sciolte.

L’uomo le comparve davanti all’improvviso, dissolvendo la sua immagine riflessa e quel fugace senso di protezione.

Istintivamente fece un passo indietro, verso la vetrina dei dolci. Il viso dell’uomo appariva vecchio, grigio e minaccioso. La sciarpa nera sporgeva dal bavero della giacca di pelle marrone, la cinghia della tracolla gli solcava il petto di traverso, come una cicatrice.

Registrati tutti questi particolari, la donna chiuse forte gli occhi e strinse i pugni ma, appena se ne rese conto, rialzò lo sguardo. In preda al panico, pensò che nel frattempo lo sconosciuto fosse entrato nel locale. Poi si ricordò che la porta era chiusa; la chiave era infilata nella serratura. Rimase ferma a guardare, ma proprio in quel momento l’uomo bussò.

Di nuovo la donna trasalì, ma stavolta non si mosse. Nella sala accanto, dove c’erano dei tavoli, l’espositore per i giornali e la Strandkorb – la poltroncina da spiaggia tipica del Mare del Nord – la luce era accesa e il suo chiarore lattiginoso arrivava fino alla vetrina dei dolci. Tremava, si sentiva esposta; come servita su un piatto d’argento.

L’uomo bussò ancora una volta, non forte, quasi con cautela; senza assumere alcuna espressione o mostrare segni d’impazienza. Al tempo stesso sembrava mosso da una determinazione incondizionata, pensò la donna mentre azzardava un passo in avanti.

Subito, con i capelli e le guance ormai quasi coperti di neve, l’uomo raddrizzò la schiena e congiunse le mani sul ventre. Quel gesto la sorprese.

Esitò. Per una sorta di deformazione professionale si chiese che ora potesse essere e se normalmente il locale fosse ancora aperto a quell’ora. Un pensiero ridicolo, perché il caffè era chiuso da una settimana.

Se fosse dipeso da lei lo avrebbero chiuso già quello stesso venerdì di oltre un mese prima; ma Stephan si era opposto e Claire, la cameriera, aveva promesso di lavorare tutti i giorni dalla mattina alla sera.

Aveva quasi raggiunto la porta, quando sobbalzò di spavento per la terza volta. Il suo sguardo affondò come un artiglio nel volto al di là del vetro. Conosceva quel genere di uomo, il modo in cui la stava osservando, l’atteggiamento eretto, sicuro di sé, risoluto; l’aspetto curato, le guance perfettamente rasate, i capelli corti; la giacca di pelle.

Nelle ultime settimane, all’inizio quasi ogni giorno, aveva incontrato spesso uomini con quelle giacche di pelle, con quel portamento e quegli occhi calmi quanto insidiosi. Di solito erano in due, e lei si sentiva ogni volta circondata e presa in trappola. Nonostante si sforzassero di comunicarle pace e armonia, non facevano che scatenare la furia delle sue paure.

L’uomo là fuori era un poliziotto.

Non lo aveva mai visto prima. Probabilmente non apparteneva al commissariato impegnato nelle ricerche di suo figlio, altrimenti l’investigatore a capo delle indagini, del quale adesso non ricordava il nome, le avrebbe anticipato la visita di un collega.

Quell’uomo dunque, pensò mentre già allungava la mano verso la chiave, non si occupava direttamente di ritrovare suo figlio, ma aveva in serbo altre domande – come quel commissario che in un’altra occasione aveva chiesto informazioni sulla scuola di Lennard.

Con un insolito sospiro di sollievo aprì la porta.

Fiocchi di nebbia le turbinarono negli occhi. Sbatté le palpebre, sorrise; si passò in fretta le mani sul viso come facevano quei curiosi che osservava dall’interno. Con inaspettata vivacità stava per salutare il poliziotto e invitarlo a entrare. Ma lui la prevenne.

“È lei Tanja Grabbe?”

Nella sua voce non c’era alcuna traccia dell’esuberanza della neve.

“Sì, certo, sono Tanja Grabbe. E lei è della polizia?”

“Mi chiamo Jakob Franck. Sono un ex agente. Possiamo entrare e sederci? Purtroppo devo comunicare a lei e a suo marito una brutta notizia.”

Intorno a lei il mondo scomparve.

Quando il mondo riapparve, Tanja Grabbe non ne faceva più parte. Stephan era seduto accanto a lei e le teneva la mano. Perché lo facesse, Tanja non riusciva proprio a capirlo. Stephan aveva appoggiato un braccio sul tavolo e la guardava come se non la riconoscesse. Fu quasi tentata di ricordargli come si chiamava.

Probabilmente, le balenò in modo vago, quell’uomo non era affatto Stephan, ma uno che gli assomigliava, con i capelli ricci e neri dai riflessi argentei che ricadevano, già troppo lunghi, sul colletto della camicia bianca. (Doveva sempre esortarlo ad andare a tagliarseli e badare che il barbiere non gli raccontasse come al solito una delle sue storie, ma lo acconciasse come si deve. Un pasticcere deve avere un aspetto curato; se un capello finisce nella glassa, nell’impasto o da qualche parte nella teca sono dolori.) Non si era neppure rasato.

Ma chi era quell’uomo che non smetteva di tenerle la mano?

Spaventata, Tanja distolse lo sguardo dal suo viso abbassandolo sul tavolo. Dalla manica del vestito blu spuntava una mano incolore, stretta da dita che avevano unghie cortissime. La sua mano; la mano di Stephan. Non credeva ai suoi occhi. Quando sollevò la testa, incrociò lo sguardo di un estraneo che aveva già visto. Rifletté su quando fosse successo. Non le venne in mente.

In quel momento si accorse che non c’era nessuno oltre a loro tre. Sedevano al tavolo vicino all’ingresso; il bancone era immerso nella penombra, nessuno entrava nel locale. C’era qualcosa di sbagliato nel silenzio che li circondava, un silenzio fuori luogo. Esattamente come lei, pensò Tanja Grabbe. Poi tornò a guardare la propria mano, serrata fra dita coperte di peluria nera, come se l’uomo a cui appartenevano ne avesse il diritto.

Poco a poco il tempo tornò in lei.

Ricordò che si trovava più o meno al centro della sala, fra la vetrina dei dolci e la porta, e sulla strada spazzata dal vorticare della neve la gente si fermava a guardarla come se fosse un animale allo zoo. Non aveva mostrato nessuna reazione, di questo era sicura; il pensiero le procurò per qualche secondo un’intima soddisfazione. Gli impiccioni erano spariti e i fiocchi di neve avevano danzato per lei sola, proprio come le piaceva.

Lo sconosciuto con la tracolla di cuoio aveva infranto il gioco incantato che si svolgeva davanti ai suoi occhi e così tutto era morto.

“È tutta colpa sua.”

“Non dovremmo chiamare un medico?” disse l’uomo che le stava seduto di fronte. Non riusciva a guardarlo. Dalla mano, imprigionata nella stretta estranea dell’altro, s’irradiava in lei una rigidità che giungeva fino alla nuca.

Avvertì un capogiro. Stranamente non temette di perdere i sensi come le era capitato in passato in situazioni impreviste – circostanza di cui poi si era enormemente vergognata.

Sentì invece diffondersi una calma inattesa, come se avesse assunto uno dei farmaci prescritti dal dottor Horn o bevuto due bicchieri del pesante vino rosso con cui celebravano gli anniversari di matrimonio.

Malgrado si preoccupasse del proprio aspetto imbarazzante – era seduta scomposta, con il vestito logoro e i capelli rovinati dalle doppie punte – l’improvvisa atonalità dei suoi pensieri quasi la rappacificò con la presenza dei due ospiti indesiderati.

Solo il silenzio, dentro e fuori, la disturbava. Non se ne fidava, le appariva falso.

“Signora Grabbe,” le disse nell’orecchio sinistro l’uomo con la giacca di pelle. Lei lo vide con la coda dell’occhio. “Ha capito che cosa ho comunicato a lei e suo marito?”

“Mio figlio è morto.”

Nel momento stesso in cui udì la propria voce, Tanja Grabbe si convinse che non avesse nulla a che fare con lei. Si voltò improvvisamente verso l’uomo che le stava seduto accanto e fu tentata di abbracciarlo: con le mani in tasca e lo sguardo spento, aveva l’aria intirizzita. Nel bagliore giallo emanato dal lampadario, il suo viso pareva rivestito da uno strato di cera che la donna avrebbe volentieri raschiato via, se solo avesse saputo come.

“Di’ qualcosa.” Delicatamente gli accarezzò i capelli; si curvò e con le ciglia dell’occhio destro gli diede un bacio a farfalla sulla guancia. Aspirò l’odore familiare del suo dopobarba e ne seguì la scia; poi tornò ad appoggiarsi alla spalliera.

Un attimo dopo le piombarono addosso i ricordi.

Tanja Grabbe boccheggiò, gettando uno sguardo incredulo all’uomo dall’altra parte del tavolo. Le tornò in mente perfino il nome e le parole che le aveva detto quando ancora lo credeva un semplice commissario.

Trasalì come se il suo sonno, un sonno che aveva potuto assaporare solo per un istante, fosse stato d’un tratto annientato da un demone.

Si guardò attorno, riconobbe il mondo. Spalancò la bocca e cominciò a emettere dei suoni che alle orecchie di Franck suonarono come l’ansimare affannoso di un animale. Franck vi ravvisò l’eco delle proprie parole, che solo adesso, un’ora dopo essere state pronunciate, risuonavano in lei con incontenibile violenza.

Nell’istante della sua improvvisa consapevolezza Tanja Grabbe si staccò da suo marito. Lui le prese le mani, ma lei trasalì di nuovo e se le nascose in grembo.

“Desidera che ne parliamo?” Franck avvertiva su di sé lo sguardo di Stephan Grabbe, ma la sua attenzione era concentrata sulla donna.

“Non è quello che stiamo facendo da quando è arrivato?” domandò lei con tono assente, continuando ad ansimare.

“No, finora lei ha preferito tacere.”

Tanja riuscì a chiudere la bocca solo al quarto o quinto tentativo. Quando si accorse del rumore che produceva respirando con il naso, a labbra serrate, si sentì imbarazzata e abbassò la testa.

Fino a quel momento, ai coniugi Grabbe Franck aveva comunicato soltanto che era stato ritrovato il cadavere del loro figlio undicenne scomparso, niente di più; nessun dettaglio relativo alle circostanze o al luogo della scoperta. Aveva agito su richiesta di un amico della sezione omicidi.

Quando era ancora in servizio, Franck si era assunto il compito di comunicare ai familiari le brutte notizie. Anche quando non era direttamente responsabile del caso. Lo aveva deciso in occasione di un crimine come tutti gli altri. Da allora, ogni volta che gli veniva chiesto, svolgeva quel compito. Né le cose erano cambiate con il sopraggiungere del pensionamento.

Franck aveva dunque espresso alla donna le condoglianze da parte sua e dei suoi ex colleghi, e le aveva ripetute all’arrivo del marito. L’iniziale assenza di Stephan Grabbe era dovuta al fatto che, non sopportando più il senso di oppressione, era andato a camminare per due ore senza meta costeggiando l’Isar. “Lontano da questo terribile viavai natalizio,” aveva dichiarato.

Con un movimento deciso Stephan Grabbe sfilò le mani dalle tasche dei pantaloni e le appoggiò sul tavolo. Disse: “La ringrazio per il tempo che ci sta dedicando, signor…”

“Franck.”

“Dunque il nostro Lennard non è morto per un incidente. È stato…”

“Non hai sentito? Lennard è morto,” lo interruppe Tanja senza alzare minimamente la voce; poi ripiombò nel silenzio. Suo marito e Franck si voltarono a guardarla: aveva già chinato la testa e si stava mordendo le labbra.

“Il corpo di vostro figlio,” riprese Franck, “verrà esaminato dall’istituto di medicina legale. Solo allora sapremo che cosa è successo esattamente.”

“È stato assassinato,” disse Stephan Grabbe.

“Non ne siamo ancora certi.”

Non era una menzogna, pensò Franck. Una menzogna sarebbe stato negarlo.

Era infatti vero che il collega a capo delle indagini considerava altamente probabile che il bambino non fosse stato vittima di un incidente ma di un omicidio. A prima vista si poteva ipotizzare che l’autore del delitto lo avesse colpito con violenza brutale, in pieno volto, facendogli urtare la nuca contro un oggetto. Comunque la causa del decesso sarebbe stata accertata solo alcune ore più tardi o nel corso del giorno successivo. Alla domanda se il luogo del ritrovamento corrispondesse a quello del delitto, Franck non aveva ottenuto una risposta definitiva. Gli inquirenti ne dubitavano.

“E il bosco dove è stato ritrovato? Qual è?” chiese Stephan Grabbe.

Franck lo aveva già accennato. “Al confine della città, sul lato meridionale.”

“Dove, signor commissario?”

“Mi chiami semplicemente Franck, la prego. Riceverete tutte le informazioni rilevanti non appena le indagini preliminari saranno concluse. Potete contarci. Nel frattempo vorreste parlarmi di vostro figlio? Oppure pregare assieme?”

Tanja Grabbe sollevò la testa.

Franck riconobbe nei suoi occhi ciò che chiamava la Luce Eterna – il riverbero di una fiamma alimentata forse dell’amore inossidabile che lega un morto ai suoi cari; un moto di ribellione contro le tenebre che tutto racchiudono.

“Voglio vederlo,” disse la donna. “E lei mi porterà da lui, subito.”

Come spesso faceva in situazioni simili, Franck assunse lo stesso sguardo del suo interlocutore. Prima di rispondere osservò un breve, solenne silenzio; fece molta attenzione al tono delle sue parole. “La accompagnerò volentieri, se lo desidera. Però occorre aspettare. Se vuole, aspetterò con voi.”

“Aspettare quanto?” La voce di Tanja Grabbe fuoriuscì di colpo dalla bocca che si richiuse immediatamente.

Franck disse: “Non lo so.”

Passò un minuto, forse due. All’improvviso Tanja Grabbe protese le braccia, in attesa che Franck le prendesse le mani e si alzasse. “Allora venga, lo ha promesso.”

L’ex commissario aggirò il tavolo tenendo la donna per mano. Sfilarono alle spalle di Stephan Grabbe, al quale servì ancora qualche istante per realizzare la situazione e voltarsi. A quel punto la moglie aveva già raggiunto la poltroncina da spiaggia a righe bianche e blu accostata alla parete posteriore. Lasciò la mano di Franck, si inginocchiò e congiunse le mani come per pregare, lo sguardo rivolto alla Strandkorb in penombra il cui intreccio di vimini e l’imbottitura in gommapiuma sembravano nuovi, mai usati.

Dopo un po’ che nessuno parlava, Tanja Grabbe si sfilò le pantofole bianche di peluche, in curioso contrasto con il vestito blu, sgualcito ma di tessuto pregiato.

Franck notò che Stephan Grabbe si dondolava avanti e indietro sulla sedia e fece un passo di lato per non ostruire il suo campo visivo.

Un’aura di religioso raccoglimento avvolse la donna dai capelli biondi, inginocchiata in silenzio. La sua bocca sfiorava la punta delle dita, lo sguardo era fisso sulla poltroncina coronata da un tettuccio, vuota.

Franck pensò al nome del locale – Caffè Strandhaus, casa sulla spiaggia – e i suoi occhi incontrarono la fotografia incorniciata alla parete di fronte alla Strandkorb: era l’ingrandimento di un’istantanea, leggermente sfocata e mossa, che immortalava una spiaggia bianca e delle dune battute dal vento. Franck si mise nei panni del fotografo e immaginò di sentire il rumore del mare alle proprie spalle.

Come se esistesse un nesso con l’assenza delle persone ritratte in quella foto, il poliziotto tornò con il pensiero alla domanda che Tanja e Stephan Grabbe non avevano pronunciato e a cui non poteva fornire la risposta, per quanto lo desiderasse.

Quando, in che giorno, a che ora dopo la sua scomparsa, la sera del 18 novembre, era morto l’undicenne Lennard Grabbe?

Anche Tanja Grabbe, inginocchiata davanti alla poltroncina da spiaggia, apparentemente intenta a pregare, non pensava ad altro. Lo vedeva seduto lì, il suo bambino, con i pantaloni corti e a torso nudo; le gambe non superavano l’imbottitura. Era raggiante perché i genitori gli avevano messo nel locale una vera Strandkorb. Voleva che si sedessero accanto a lui, ma lo spazio non bastava; così la madre lo prendeva in braccio e il padre si stringeva di fianco a lei; Lennard protendeva le braccia indicando il mare, cioè la parete di fronte, e da fuori entrava il sole.

Momenti che equivalevano a un’estate sul Mare del Nord; come un tempo che non sarebbe mai finito.

A questo pensava Tanja Grabbe, e alla domanda che non osava farsi. In segreto si era aspettata che Stephan la sollevasse dal compito di formularla. Dov’era Lennard?

Si volse dalla Strandkorb e di nuovo sobbalzò per lo spavento. Aveva dimenticato l’uomo che le stava accanto, il colpevole di tutto questo, colui che le negava la risposta all’interrogativo che – forse non se ne rendeva conto – divampava dentro di lei.

Stephan era ancora seduto al tavolo, lontano da lei.

Le facevano male le ginocchia per il contatto con il pavimento in pietra.

Fuori dalla finestra cadeva la neve.

Lennard era scomparso trentaquattro giorni prima per riapparire quel giorno.

Dov’era?

“Voglio vederlo,” disse per la seconda volta.

“A cosa pensi? E non rispondere che non pensi a niente.”

“Penso a te.”

“Sono qui.”

“Penso a come dovevi essere da bambina.”

“Non ricominciare con la solfa di quanto sei invecchiato. E tanto meno di quanto lo sia io, chiaro?” Marion Siedler sospinse il bicchiere con la birra verso di lui. “Finisci di bere e vai a prendertene un’altra. Che hai? Credevo volessimo guardare il film.” Marion era già sul punto di alzarsi. “Stai pensando al bambino. A sua madre, che dopo la tua visita ha trascorso tutta la notte sulla poltroncina da spiaggia. Hai avuto sue notizie negli ultimi giorni?”

Franck bevve e posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, senza lasciarlo.

Da quando si era recato al Caffè Strandhaus erano passati otto giorni. Il giorno successivo i genitori, senza richiedere la sua presenza, avevano identificato il cadavere. Frattanto la causa della morte di Lennard era stata stabilita.

Frattura cranica con emorragia interna, provocata da un colpo violento. L’assassino aveva deposto il cadavere in un bosco dalle parti di Höllriegelskreuth, lungo un canale dell’Isar, nascondendolo sotto un cumulo di rami e detriti di legno. A conclusione del suo esame preliminare, il medico legale aveva affermato che Lennard era stato ucciso probabilmente la sera stessa della sua scomparsa. Al momento non c’erano indizi circa il luogo e l’autore del delitto. I funerali si sarebbero svolti l’indomani, sabato 31 dicembre, al cimitero Ostfriedhof. E Franck vi avrebbe partecipato.

Ma di questo non voleva parlare.

“Com’è stato crescere a Germering?” Non lo chiese per distogliere il pensiero; aveva altre ragioni.

Fin dal primo incontro sul caso Lennard Grabbe, la sua mente era condizionata da un altro crimine, con cui credeva di aver chiuso i conti.

“Perché a Germering?”

“Perché è lì che sei cresciuta.”

“Non sono cresciuta a Germering,” disse la sua ex moglie. “Sei ubriaco?”

“No.”

“Ti dispiacerebbe smetterla con quello sguardo da sbirro?”

“Da quando in qua non sei cresciuta a Germering?”

“Se continui con questi discorsi assurdi ti mando subito a casa.”

“Ti ho fatto solo una domanda.”

“Chi ha mai detto di essere cresciuta a Germering?”

“Tu.”

“Nemmeno per sogno.”

“Sì invece.”

“Non mi ascolti, quando ti parlo.”

“Ti sto ascoltando.”

“No, tu ascolti i tuoi sospetti, i tuoi colpevoli, i tuoi testimoni e, non dimentichiamolo, i parenti delle vittime. Evidentemente però non me. Altrimenti sapresti che non sono nata e cresciuta a Germering, ma a…”

“A?”

“A Unterpfaffenhofen. Da quanto tempo mi conosci?”

“Unterpfaffenhofen, Germering… È la stessa cosa.”

“Non è la stessa cosa. Ai miei tempi Germering e Unterpfaffenhofen erano località ben distinte, e lo sai anche tu.”

“Me n’ero dimenticato.”

“Quanto hai bevuto prima di venire qui? Sii sincero.”

“Niente.”

“Bugiardo.”

“È la verità. Te l’ho chiesto perché… perché… Non importa, vediamoci il film.”

Marion Siedler posò sul tavolo il bicchiere di vino rosso e tese la mano. “Non stai affatto pensando a me,” disse. Franck teneva lo sguardo fisso sulla parete, come colto in flagrante. “Stai pensando a tua sorella. La morte del bambino te l’ha riportata alla memoria. Guardami.”

Franck obbedì. “Stavo pensando a te, sul serio.”

“E perché pensavi a me, Hannes?”

“Perché… perché…” Gli sembrò di essere un ragazzino che balbettava nel disperato tentativo di giustificarsi. Di nuovo si sottrasse allo sguardo della sua ex moglie.

Nella sua immaginazione Marion era adesso la bambina che lui vedeva dalla finestra del cortile sul retro, con un cappotto marrone e un berretto rosa dal pompon bianco come una palla di neve. Guardava da un’ora i fiocchi mulinare attraverso il vetro appannato, quando finalmente aveva riconosciuto un profilo, un messaggio, un indizio riguardante il mostro che aveva colpito la sua famiglia per poi scomparire senza lasciare traccia.

Più il tempo passava, più in lui cresceva l’esigenza di agire, di rendere liberi i suoi genitori. Ma non sapeva come.

Fermo alla finestra, con le mani nelle tasche dei suoi jeans preferiti ormai sfilacciati, gli occhi fissi sulla bambina in cortile e sul poliziotto in uniforme che parlava con lei, Jakob aveva dimenticato gli allenamenti di calcio, i compiti di fisica e storia, l’incombente test d’inglese e tutto quello che sua madre gli aveva detto, prima di pregarlo di andare in camera sua e aspettare lì.

Pensò che non avrebbe potuto seguirla. Sarebbe dovuto scendere in cortile e costringere il poliziotto a dire la verità.

Non aveva mai visto piangere suo padre, prima di allora. E a differenza di sua madre, il padre non aveva solo pianto: aveva singhiozzato disperatamente, le lacrime parevano schizzargli dagli occhi, i gemiti che emetteva erano i suoni più inquietanti che il figlio avesse mai udito.

Quel pianto aveva riempito anche la stanza dei bambini. Jakob non aveva osato voltarsi per paura di vedere suo padre sulla soglia, sfigurato dal dolore, con le mani tremanti d’ira impotente.

E adesso, come incantato, guarda giù, verso la bambina con il cappotto. Quando lei alza la testa, mostrandogli il suo volto pallido e bagnato di neve, Jakob è colto da uno smisurato spavento e si sente scoppiare il cuore.

“Eri tu,” disse Franck. “Tu e nessun altro.”

Il suo sguardo, la sua voce, il suo silenzio fecero capire a Marion Siedler che Franck non ammetteva repliche. L’ex marito annuì, come ringraziandola per la comprensione. “Per tutto il tempo ho visto davanti a me la tua immagine. Sono sicuro che d’inverno portavi berretti con il pompon. Come la bambina in cortile. Ho dimenticato il suo nome. Abitava nel quartiere, passava di lì per caso e ha visto la macchina della polizia. Poi hai alzato lo sguardo verso di me e c’è mancato poco che io svenissi.”

“All’epoca non ci conoscevamo. E di certo da bambino tu non sei mai stato a Unterpfaffenhofen.”

“No, di certo.”

“No,” ripeté lei e decise di non lasciar cadere l’argomento.

Franck le aveva raccontato di quel giorno d’inverno della sua infanzia al tempo in cui ancora davano forme sempre nuove alla loro intimità. Più tardi aveva rinchiuso il dolore nel ricordo e Marion non lo aveva forzato. Adesso però, così le sembrava, Franck la invitava con fare maldestro ad agevolargli il compito di aprirsi.

“Mi sarebbe piaciuto conoscere anche lei. Si percepisce che eravate molto uniti, tu e la tua sorellina,” disse Marion.

“Era più alta di me, anche se aveva due anni di meno. A volte mi dava un bacio sulla fronte.”

“Lina.”

“Non hai dimenticato il suo nome,” osservò Franck.

“Ti piaceva che ti baciasse sulla fronte. Lo facevo anch’io ogni tanto, mentre dormivi; di solito smettevi di russare.”

Nel ricordo qualcosa s’irrigidì di paura; Franck scacciò il pensiero. “Ho pensato a lei tutta la settimana,” disse in fretta. “Ogni singolo giorno. Come non capitava da parecchio tempo.”

“Che cos’è successo?”

Franck sprofondò in un silenzio assorto che meravigliò Marion. Conosceva il carattere del suo ex marito, chiuso per inclinazione professionale. Da che aveva preso a entrare e uscire dal mondo dei morti in quanto commissario capo della squadra omicidi, Franck aveva poco a poco dimenticato la tenerezza e, con il passare del tempo, Marion aveva imparato ad accettare il suo atteggiamento come una peculiarità tanto inquietante quanto tremendamente seria del suo carattere. Una peculiarità inadatta, però, al matrimonio.

Ciononostante non era mai stato da lui fare mistero di qualcosa o tacere per vantaggio personale. Hannes – da quando erano cominciate le loro serate dedicate al cinema lo chiamava così, mentre Franck chiamava lei Gisa – mostrava un rifiuto addirittura fisico verso ogni forma deliberata di reticenza manipolatoria; considerava un bugiardo chiunque si comportasse in questo modo e verso i bugiardi, anche al lavoro, non mostrava alcuna indulgenza.

“Perché mi guardi così?” chiese Franck.

“Sto pensando a te.”

“In che senso?”

Marion si alzò, sorrise di sfuggita, prese il bicchiere di birra e andò in cucina. Si appoggiò al frigorifero, proibendo ai propri pensieri di avvicinarsi al cuore.

II

Senti come tacciono?

L’anno scomparve dietro una parete bianca.

Tanja Grabbe, la donna con il vestito nero e il pendente blu, posò la mano sul vetro della finestra e pregò che la neve la portasse via con sé, là dove adesso si trovava suo figlio, su una poltroncina da spiaggia in riva al mare.

L’acciottolio delle stoviglie risuonò in lei come una scossa.

Era seduta – qualcuno l’aveva costretta a farlo, presumibilmente un poliziotto o suo marito, non se lo ricordava; sfregò l’uno contro l’altro i polsi delle mani chiuse a pugno, tormentata dalla domanda: perché fanno tutto questo baccano? Perché parlano a voce così alta? Perché la macchina del caffè sbuffa ininterrottamente? Perché devo stare qui? Perché tutto questo?

Attraverso le tendine del locale intravide il fitto imperversare della neve. Se chiudeva gli occhi stretti stretti, sentiva il legno duro della slitta sotto di sé e il peso di Lennard in grembo; il vento che soffiava sulle loro facce. Se riapriva gli occhi, vedeva un uomo in abito nero che le fissava le mani.

Per qualche secondo il rumore dei propri polsi che si sfregavano meccanicamente le risultò sgradevole. Poi avvertì di nuovo quella pulsazione cominciata al cimitero, nel punto del suo corpo dove – circa dodici anni prima – aveva sentito per la prima volta la presenza di Lenny.

In quell’occasione aveva detto al dottor Horn, confidando nell’obbligo del segreto professionale, che ora la sua vita stava per giungere a compimento. Prima non c’era stato altro che l’ombra di una donna. Con il dottor Horn aveva il coraggio di parlare a viso aperto.

Adesso vedeva il medico seduto a un tavolo, vicino al bancone; la donna con i capelli grigi che gli stava accanto parlava a raffica, impedendogli di aprire bocca; il dottore ascoltava, come faceva sempre, anche con Lenny, il cui profluvio di parole a volte pareva inesauribile.

In lei non c’era altro che quella pulsazione. Il suo corpo, pensò, ne aveva conservato memoria.

Ma chi aveva costretto il medico a sedersi a un altro tavolo? Per un po’ non riuscì a levarsi dalla testa questa domanda. Il dottore avrebbe di certo preferito starle vicino, ma qualcuno glielo aveva impedito. Così come, nella camera ardente, qualcuno aveva negato a lei di sedersi accanto alla bara.

“Sei sicura di non voler mangiare niente?” chiese l’uomo che le stava di fianco. Tanja Grabbe si volse e osservò il suo viso, gli occhi stranamente familiari, i capelli troppo neri che sembravano tinti e che lei ricordava diversi, più lunghi e ricci.

Stephan, pensò, che cosa combini quando nessuno bada a te?

Davanti a lei c’era un piatto d’insalata verde sormontata da una fetta di pomodoro. La sola vista le provocò il voltastomaco. Afferrò di scatto la mano del marito e gli affondò le unghie nella carne. Smise solo quando d’istinto risollevò lo sguardo sul viso di Stephan, che si mordeva le labbra e tratteneva il fiato. Lo lasciò subito e il marito spalancò gli occhi, respirò frenetico e si soffiò sul palmo della mano come un bambino. Questo gesto timido spaventò Tanja Grabbe a tal punto che iniziò a singhiozzare forte.

Le conversazioni cessarono. Il medico la guardò con aria preoccupata. Un uomo con la barba si alzò dal proprio tavolo e si strinse accanto a lei sulla panca. La cinse con un braccio, le poggiò la testa sulla spalla; poi, carezzandole il viso, annuì rivolto ai presenti. Il brusio delle voci riprese.

La presenza di suo fratello alleviò il senso di solitudine che Tanja provava. Era sempre stato così, anche quando era una bambina di dieci o undici anni; Max la prendeva in braccio o semplicemente la sollevava da terra – senza ragione, in un gesto di pura esuberanza – e lei si sentiva liberata da qualunque peso, da ogni timidezza e paura.

Tutti nel locale conoscevano Maximilian Hofmeister, e i più conoscevano lo stretto rapporto che legava fratello e sorella, un rapporto rimasto intatto anche dopo il matrimonio di Tanja. Nel corso degli anni qualcuno di loro si era probabilmente domandato che cosa pensasse di questo rapporto il padre di Lennard, Stephan Grabbe, e se di tanto in tanto l’intimità tra i due non lo opprimesse o addirittura lo ferisse.

Malgrado Grabbe fosse un piccolo imprenditore – gestiva insieme alla moglie un caffè non distante dalla piazza Münchner Freiheit – e dovesse per questo intrattenere relazioni quotidiane con la gente, nei modi appariva spesso introverso, quasi arrogante. Con il sole o con la pioggia, ogni fine settimana accompagnava Lennard alle partite di calcio; d’estate andava in villeggiatura con la moglie e il figlio sul Mare del Nord. Al ritorno dalle vacanze, con la sua chiacchiera che non finiva mai, Lennard descriveva a tutti le meravigliose nuotate fatte con suo padre, le centinaia di conchiglie e pietre che avevano raccolto. Avevano giocato a calcio sulla spiaggia riservata agli animali finché tutti i cani non erano stramazzati di fatica a furia di rincorrere la palla. Di suo padre Lennard non parlava mai male.

“Vorrei dire una cosa.”

Tanja Grabbe prese la forchetta e la fece tintinnare contro il bicchiere. Calò il silenzio. “Vorrei dire una cosa,” ripeté. “Non ce la faccio ad alzarmi.” Chiuse gli occhi per un istante: i rumori erano cessati persino in cucina.

Quasi senza produrre alcun suono, accompagnato solo da un mormorio sordo, all’esterno un tram scivolò lungo i binari innevati.

Sorpreso dall’inaspettata iniziativa della sorella, Maximilian Hofmeister si scostò da lei e si carezzò imbarazzato la barba finché – accorgendosi del fruscio – s’interruppe di colpo.

Negli occhi del pastore Olbrich, seduto a capotavola, quella donna in abito nero – con un velo di seta che le copriva i capelli biondi e quasi indomiti – era circonfusa da un’aura di tragica gioventù e sensualità appassita. In quel momento il pastore non avrebbe saputo dire se Tanja si fosse mai sentita realizzata in vita sua. Nonostante nel corso dei colloqui con la coppia avesse incoraggiato i coniugi ad aprirsi, lei non aveva speso neppure una parola sulla catastrofe esistenziale che la morte di un figlio genera nell’intimo di una madre. Si era limitata a esprimere il desiderio di sedere, tanto in chiesa quanto nella camera ardente, da sola su una sedia, accanto alla bara ornata di rose bianche. E non trovando alcun motivo convincente per negarglielo, il pastore aveva acconsentito; il marito però si era opposto e lei aveva accettato il divieto senza controbattere.

Quando Tanja cominciò a parlare, Arthur Olbrich congiunse le mani all’altezza del petto; il pastore notò che due tavoli più in là un’altra persona faceva lo stesso gesto. Quando costui sollevò la testa, Olbrich si ricordò di ciò che gli aveva raccontato Stephan Grabbe: due giorni prima di Natale, quell’uomo aveva portato loro la notizia della morte di Lennard ed era rimasto fino a mezzanotte.

Poi accade qualcosa che per poco non strappò un sorriso al vecchio sacerdote. Con le mani giunte, richiamò alla mente un salmo che intendeva recitare e allo stesso tempo gli sovvenne un verso che da poco aveva letto nel Corano: Apparteniamo tutti a Dio, Lui è la meta del nostro viaggio; o anima che hai ritrovato la quiete, tu che fosti caritatevole verso il prossimo, torna in pace al tuo Signore; unisciti ai miei servi ed entra nel mio paradiso.

Mentre Olbrich si chiedeva perplesso quale disegno divino lo avesse indotto ad associare tali pensieri al funerale di un bambino cattolico, il commissario capo in pensione Jakob Franck pronunciava il salmo che era solito ripetere in presenza dei familiari in lutto, quello stesso che anche il pastore aveva avuto in mente all’inizio: Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo, da sempre e per sempre tu sei Dio; tu fai tornare i mortali in polvere, e dici: “Ritornate, figli degli uomini”. Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato, come una veglia nella notte.

“Mio figlio non è morto,” disse Tanja Grabbe. “È seduto a questa tavola e ci osserva, perché siamo tutti colpevoli.”

Non guardava nessuno dei presenti. Fissava solo la fotografia incorniciata con il nastro nero davanti a sé, accanto al vaso con le rose bianche.

“Quale elefante ha le orecchie più grandi, quello africano o quello asiatico?” domandò. “Si confondeva sempre, il mio Lennard, era sicuro che fosse quello asiatico. Aveva mille domande del genere. Non che io ne sappia molto più di lui. Di calcio non capisco niente e lui è imbattibile, il migliore della scuola.

“Gioca da centravanti, lo sapete; quest’anno ha già fatto cinquantasette gol e trentatré assist, o come si chiamano, per far segnare un compagno di squadra. Me l’ha scritto apposta nero su bianco, perché lo imparassi, e poi mi ha interrogato. Cinquantasette gol; è il record della sua scuola, gli hanno anche dato un attestato.”

Avvicinò la mano alla foto senza toccarla. “Un uomo è spuntato dalla neve e ha bussato alla porta.”

Chiuse la mano a pugno e bussò quattro volte sulla tovaglia. “Ho capito subito chi era. Da che cosa si riconosce un poliziotto? Dalla divisa, dice Lennard, ed è vero; ma la divisa non è fatta solo dai vestiti che uno porta, è anche come guarda e si muove e dice cose tipo: suo figlio è morto. Nessun altro dice frasi simili, solo un poliziotto.

“L’ho riconosciuto subito e l’ho scambiato per un altro. Sono così sciocca. Come hai fatto a non rendertene conto?, mi ha chiesto Lennard dalla sua Strandkorb, dove sta sempre seduto. Sono così sciocca, così sciocca, ha proprio ragione.

“Neve dappertutto; la gente passava di corsa davanti al locale, grazie a Dio sono spariti tutti. A un tratto piove dal cielo quest’uomo con la borsa di cuoio a tracolla, e io penso: un altro poliziotto che vuole fare altre domande sulla scuola, oppure l’ha mandato il direttore per portarmi l’attestato sportivo di Lennard. Quello dei cinquantasette gol. Infatti era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale.

“Ho pensato questo, gli ho aperto e l’ho fatto entrare. Era pallido come un lenzuolo, ma la punta del naso ce l’aveva tutta rossa. Mi ha detto qualcosa sulla soglia, ma non gli ho prestato attenzione. E nemmeno dopo. O meglio, dopo sì, ma non me lo ricordo più. A un certo punto è arrivato anche Stephan, chissà dov’era, forse a fare un pupazzo di neve. Spesso non si sa che cosa stia combinando, quando non è ai fornelli. Anche se di solito è ai fornelli, certo.

“Da una vita non prendevo un granchio del genere sul conto di qualcuno. Che fosse un poliziotto ci avevo visto giusto, però ho sbagliato a figurarmi il resto; Lennard non me lo perdonerà mai.”

“Il poliziotto ha raccontato solo menzogne. Noi due lo sappiamo. Ho pensato che, se sei d’accordo, si potrebbe appendere l’attestato in soggiorno, alla parete accanto al televisore, così lo avremo sempre sotto gli occhi. Pensaci.

“Ma non crediate che Lennard sia uno di quei bambini che stanno sempre davanti alla televisione. Gli piace vedere le partite di calcio, talvolta anche la sera tardi, ma solo se il giorno dopo non c’è scuola. Io e Stephan siamo molto rigidi su questo punto. Stephan è mio marito, questo qui accanto, e quest’altro è mio fratello, qui accanto anche lui. Mio fratello gestisce il salone di bellezza Hofmeister, l’impresa di famiglia, in Fraunhoferstraße. Quella è mia madre, ciao mamma, spero di non metterti in imbarazzo parlando così, anche se racconto a tutti cose di famiglia. È indispensabile, altrimenti non si capisce che cosa è successo.

“È colpa del poliziotto venuto dalla neve. Senza di lui avremmo vissuto tutti più a lungo, anche tu, mamma, e tu, Max, e anche tu, Stephan, e io. Adesso vive solo il nostro Lennard.

“Eccolo in riva all’Isar, dopo la vittoria contro la squadra di Pullach, quattro a uno. Lennard ha segnato due gol. Guarda, la maglia bianca è zuppa di sudore; si vede che è esausto, continuava a correre come un matto quando tutti gli altri erano già scoppiati da un pezzo; dove lo prenderà tanto fiato, certo non da me, forse da suo padre. Quel pomeriggio l’ho fotografato durante e dopo la partita. Si sono messi in cerchio, gridavano di gioia per aver battuto un avversario così difficile. Guarda come ride. Non ha mai amato farsi fotografare, ma quella volta l’ho catturato ed è stata una fortuna. Capocannoniere Lennard Grabbe.

“Non sei tornato a casa, nessuno sa perché; neppure quel sapientone del poliziotto, grande esperto di morte ma non di vita. Se davvero sapesse qualcosa, potrebbe dirmi che strada ha fatto Lennard tornando da scuola e dove è successo esattamente ciò che in verità non è successo. Non può essere successo, perché non ci sono prove e quello che non si può provare non esiste.”

Tanja Grabbe tacque.

Nessuno fiatò. Il cuoco, marito della proprietaria, e il suo aiutante africano erano usciti dalla cucina senza rumore; si erano appoggiati alla parete dietro al bancone e ascoltavano le frasi spezzate che la donna pronunciava con voce esitante e al tempo stesso accorata, con la mano destra di nuovo chiusa a pugno. Anche il più piccolo dei suoi movimenti provocava un fruscio insolito, come se la stoffa sfregasse il silenzio. Al giovane etiope, curvo dietro al suo capo con le mani nascoste sotto il grembiule da cuoco, quella scena sembrò premonitrice di sventura.

Tanja Grabbe fissò a lungo il viso del pastore Olbrich. Ma poiché, contrariamente alle sue aspettative, il pastore non abbassò gli occhi, fu lei a volgere la testa. Trasalì alla vista dell’uomo di cui aveva dimenticato la presenza, e nessuno poté far a meno di notare quella reazione improvvisa. A Jackob Franck non rimase altra scelta che sopportare indifferente lo sguardo generale.

Franck era stato invitato da Stephan Grabbe. Se qualcuno dei familiari lo avesse esortato a farlo, avrebbe pronunciato – e non sarebbe stata la prima volta in simili circostanze – un breve discorso. Un discorso da poliziotto: dichiarazioni sulle indagini in corso, previamente concordate con i colleghi; formule di consolazione attinte dall’annosa esperienza di altre parole, pronunciate in notti di silenzio totale.

“Vorrei conoscere la verità,” disse Tanja Grabbe rivolta a Franck.

Ma non si aspettava una risposta; la sua attenzione era subito tornata a posarsi sulla fotografia. Guardava le rose, il mondo dentro di sé. “Vorrei sapere chi ha portato Lennard a Höllriegelskreuth. A che scopo? Che cosa c’è andato a fare? Forse ci abita un orco e Lennard voleva incontrarlo? Non credo, no. Qualcuno lo ha costretto ad andarci, ma chi? Su questo i commissari tacciono. Loro fanno solo domande e affermano cose che non capisco. Se uno dice qualcosa che non si capisce, tutti pensano che deve essere importante. Che crudele sciocchezza! Chi è la persona che ha aspettato Lennard all’uscita di scuola e lo ha portato a Höllriegelskreuth? Si è volatilizzato, è stato inghiottito dalla terra, è emigrato in America? Ha ucciso mio figlio. Come?

“I giornali dicono che Lennard è morto per un colpo alla testa. Dato da chi? Da un fantasma? Oppure qualcuno di voi l’ha visto? No, non l’ha visto nessuno, men che mai la polizia.

“Io sono sua madre. Chi vi dà il diritto di mentirmi? I giornali dicono che qualcuno ha rubato la bicicletta di Lennard; per questo le cose sono andate così. Se fosse tornato in bici, non avrei dovuto gettare via tutto il pancarrè. Anche se in fin dei conti non è stato un grande spreco; però non si getta via il cibo; non lo facciamo mai, vero Stephan?

“Toast Hawaii, con ananas e prosciutto cotto; Lenny ne va matto, come anche dei bastoncini di pesce e della pasta al ketchup; i toast erano in forno, rientro previsto alle sette e mezzo. Lo aspettavo. No, non è vero. Perché avrei dovuto aspettarlo? Sapevo che sarebbe tornato da un momento all’altro.

“Non so più che cosa ho fatto, probabilmente ho rassettato in giro, ho ritirato la biancheria dall’asciugatrice. Ho maledetto la pioggia, il vento, il novembre da cani. Può darsi che abbia acceso il televisore per vedere se il tempo sarebbe migliorato o se avrebbe continuato a piovere fino alla fine dell’anno. Niente ombrello, Lennard odia gli ombrelli. Gli piace la pioggia; ride quando gli batte sulla testa, come nella foto dopo la vittoria della sua squadra. Guardate com’è felice.

“Nessuno guarda alla verità. È Lennard a guardare me. Perché mi conosce e sa che non mentirei mai. Gli ho insegnato che la sincerità è il pane quotidiano che ci doniamo a vicenda e così è diventato un ragazzo sincero; alla lunga, senza sincerità si finisce per morire di fame.

“Quello che è successo a mio figlio mentre tornava a casa lei non me lo dice, signor commissario; eppure ha promesso di risolvere il mistero. Noi aspettiamo una parola che ci dia pace, io e mio figlio, stiamo seduti qui ad aspettare, e non so per quanto ancora potrò pazientare.

“Era buio, pioveva senza sosta: e la pioggia – insieme al suo complice, il vento – cancellano ogni traccia. Non è andata così? Ho ascoltato per due ore un suo collega, mi ha spiegato che la polizia ha perlustrato la zona con tecniche d’avanguardia, in lungo e in largo. Discorsi che facevano una grande impressione. Però purtroppo la pioggia… purtroppo il temporale… e il sole era già tramontato… e niente testimoni. Nessuno ha visto niente.

“Ci credi, Lennard? Che quando sei uscito da scuola cercando la bici sotto il diluvio non c’era nessuno per strada, l’intero quartiere era deserto? Ho domandato al commissario se neppure i tram passassero e lui ha detto: Sì sì, passavano anche i taxi e in generale le macchine, sì sì. E allora forse nelle macchine c’erano solo dei ciechi o gente con diciassette diottrie e gli occhiali appannati.”

“La vita è un viaggio solitario, signor parroco, che affrontiamo confidando nel Signore. Così ci viene insegnato. Che può farci il Signore, contro il maltempo? Evidentemente niente; se ne sta in cielo impotente. Scarsa visibilità, una giornataccia. Sono andata al supermercato dove ogni tanto ti compri una Coca-Cola o un dolcetto, non mi dici mai di preciso cosa. Non sei costretto a dirmelo: non è mancanza di sincerità, solo un gioco. Se indovino che cosa hai comprato, lo ammetti subito e riconosci che sono più furba di te, almeno ogni tanto. La cassiera ti conosce, le ho mostrato una tua fotografia, dice che sei un bambino molto educato e un po’ timido; ti vede spesso, ma non quella sera; il 18 novembre è stata alla cassa fino alle otto, tu non sei entrato; ha detto che, contrariamente al solito, non è uscita a fumare. Fuori pioveva a dirotto ed è rimasta all’asciutto, è comprensibile.

“Sempre da sola ho percorso Eintrachtstraße, oltrepassando questo locale in cui ci troviamo adesso, e ho riflettuto se entrare a scaldarmi, a bere un tè al rum o un’acquavite. Ho deciso di no, non avevo tempo; impugnando l’ombrello a due mani, perché non volasse via, ho proseguito. Non piangere, mi sono detta, perché piangi? Poi mi sono resa conto che non stavo piangendo; era la pioggia a bagnarmi il viso con le sue lacrime. Credimi, è stato proprio così.

“Ho costeggiato il muro del cimitero, ho girato in Regerstraße e mi sono ritrovata davanti a casa. Lungo la strada ho chiesto a chiunque incrociassi: Ha visto mio figlio? Ha visto mio figlio? Ha visto mio figlio? E quelli dicevano: No no. Mi hanno mentito, Lennard, non è vero?

“E il ragazzo che ti ha rubato la bici giura che non ti conosce; la polizia l’ha lasciato andare, è solo un ladro, dicono, e poi ha anche riconsegnato la bici spontaneamente. Può darsi. Sarà così. Ha riconsegnato la bici, ma senza te sopra.

“A che mi serve la bici, se tu non sei seduto sul sellino? Che senso ha una bici simile? Me lo può spiegare, signor commissario? O lei, signor parroco? Possibile che nessuno mi racconti la verità?

“Senti come tacciono, Lennard?”

Il ragazzo si chiamava Hendrik Zeil, aveva quattordici anni e cercava di farsi passare per stupido, atteggiamento che esasperò alquanto la pazienza di Franck. Il capo della squadra speciale André Block, suo amico ed ex collega, lo aveva autorizzato a fargli alcune domande.

Hendrik aveva chiamato la polizia quando il suo compagno di scuola, l’undicenne Lennard Grabbe scomparso ormai da settimane, era stato trovato morto.

Nella deposizione resa al commissario capo Block, Hendrik aveva affermato di essersi impossessato della bicicletta quel venerdì sera “perché diluviava e volevo sbrigarmi a tornare a casa”.

Dalle indagini emerse che al liceo Asam si verificavano regolarmente furti di biciclette, ma nessuno era mai stato colto in flagrante.

“Da noi funziona così,” disse Hendrik, “non ci si può fare niente.” Quella sera aveva “sgraffignato” una delle bici nel cortile della scuola. Alla domanda se avesse forzato il lucchetto, rispose: “Non ce n’è stato bisogno, niente lucchetto.” Il bambino scomparso? Non lo conosceva personalmente.

può darsi addirittura che sia morto